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Lo scorso 30 dicembre 2022, la Corte di Cassazione è intervenuta – nuovamente – sull’utilizzo parodistico del personaggio di fantasia tutelato dal diritto d’autore.

 

La questione prende le mosse da una pubblicità di una nota marca di acqua minerale, Brio Blu, che, nel 2007, diffondeva una campagna televisiva e radiofonica avente come protagonista il comico Max Tortora che interpretava, in chiave caricaturale, il celebre personaggio di Zorro, nato nel lontano 1919 dalla penna dello scrittore americano Johnston McCulley. La Zorro Productions Inc. aveva ritenuto che lo spot violasse i diritti di proprietà intellettuale che la stessa vantava sul famoso spadaccino, pertanto chiamava in giudizio CO.GE.DI. S.p.A. lamentando una violazione della propria privativa.

 

Se il Tribunale di Roma aveva inizialmente accolto l’istanza della Zorro Productions accertando tale violazione, successivamente la Corte d’Appello di Roma, su ricorso della CO.GE.DI., respingeva tutte le domande attrici constatando la caduta in pubblico dominio del personaggio di Zorro. Proposto ricorso per Cassazione, la Corte annullava con rinvio quest’ultima pronuncia rilevando che, in forza della Convenzione di Ginevra del 1952, le opere di cittadini statunitensi pubblicate in Italia godono della medesima tutela offerta dell’art. 25 l. 633/1941 e, dunque, sono protette fino al settantesimo anno solare dopo la morte dell’autore. Riassunto il giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello, questa riteneva che, nonostante l’uso del personaggio di Zorro fosse avvenuto in chiave parodistica, era comunque idoneo ad integrare una violazione del diritto d’autore vantato dall’originaria attrice in quanto, nel caso di specie, non era stato effettuato una vera e propria rielaborazione dell’opera.

 

La Suprema Corte, chiamata nuovamente a pronunciarsi sul tema, ha enunciato, con la decisione in commento, un principio di diritto con cui definisce la parodia un “atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un’opera, o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera o al personaggio che sono parodiati”.

 

La parodia, per sua stessa definizione, si caratterizza per un “ineliminabile carattere di parassitismo rispetto all’opera parodiata” e non può, pertanto, rientrare nella categoria delle elaborazioni creative, risultando, da un lato, assente una vera e propria relazione di continuità con l’opera originale, in quanto trattasi di un rovesciamento concettuale rispetto ad essa, e, d’altro lato, impossibile pensare che l’opera parodiata possa ottenere il favore dell’autore dell’opera originale. È, dunque, nell’art. 70 l. 633/1941 che può rintracciarsi il fondamento della liceità della parodia del personaggio di fantasia, laddove intesa come espressione del diritto di critica e discussione dell’opera.

 

Ciò posto, viene tracciato un limite rispetto all’utilizzo parodistico del marchio altrui laddove da tale uso consenta di trarre un indebito vantaggio dalla rinomanza o dal carattere distintivo del brand. La Suprema Corte, sottolinea che, ferma restando la possibilità in capo al titolare del segno di vietarne uno sfruttamento in chiave parodistica, la Corte d’Appello ha mancato di considerare che non solo l’utilizzo a fini distintivi può arrecare un danno, bensì anche l’uso di tipo narrativo che risulti idoneo ad agganciare i pregi del marchio altrui.

 

In questi termini la Suprema Corte ha annullato la sentenza di secondo grado e rinviato la decisione alla Corte d’Appello di Roma per un nuovo esame del merito, da effettuarsi alla luce dei principi di diritto esposti.

 

Dott. Lorenzo Saredi


categoria:Diritto d’autore