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Con la sentenza n. 52029 del 6 novembre 2014 la Cassazione penale ha tentato di mettere ordine nel guazzabuglio delle norme a tutela del “made in Italy” contenute nell’art. 4, commi da 49 a 49-quater, della legge n. 350/2003, derivanti dalla stratificazione di vari interventi normativi non ben coordinati fra loro. Uno dei problemi interpretativi riguarda com’è noto il trattamento delle “fallaci indicazioni di provenienza” consistenti nell’uso fuorviante dei marchi aziendali, ossia nell’uso dei marchi con modalità tali da far ritenere che il prodotto sia di origine italiana quando invece non lo è: comportamento che il comma 49 sembra sanzionare come reato (con rinvio all’art. 517 c.p.), e che il comma 49-bis sanziona invece come semplice illecito amministrativo. Che fare? Con la sentenza n. 52019, superando le ambiguità normative, la Cassazione ha affermato chiaramente che l’uso ingannevole del marchio aziendale – in presenza delle altre condizioni previste dal comma 49-bis – costituisce illecito amministrativo, e non reato, “in ragione del minor grado di offensività della condotta rispetto al bene giuridico tutelato”, costituito “dalla correttezza commerciale nei rapporti fra imprenditori e nei confronti dei consumatori”. Di conseguenza, la Cassazione ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 517 c.p. un imprenditore che aveva importato in Italia portafogli fabbricati in Cina e recanti il marchio “La Gamma Italy”, senza che vi fosse alcune indicazione circa la loro effettiva provenienza: trattandosi di un uso fuorviante del marchio aziendale, il fatto non costituisce reato. Avv. Paolina Testa


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