Salvo casi particolari, il ritratto di una persona non può essere esposto senza il consenso dell’interessato (art.10 cod. civ.; artt. 96 e 97 Legge sul Diritto d’Autore). Il diritto all’immagine è un diritto assoluto: la sua violazione si verifica per il solo fatto di farne un utilizzo non autorizzato, senza la necessità di dimostrare anche l’esistenza di un danno, o che la riproduzione o diffusione del ritratto ha recato pregiudizio all’onore o alla reputazione dell’interessato. La prova del danno deve invece essere fornita per ottenere un risarcimento.
Spesso l’immagine altrui viene utilizzata per finalità commerciali, come la pubblicità. In questo caso, qualora sia mancato il consenso dell’interessato (o, come accade, l’uso dell’immagine abbia ecceduto i limiti del consenso prestato dall’interessato), e sempreché la diffusione non abbia provocato anche un pregiudizio alla reputazione dell’interessato, il danno è patrimoniale e viene calcolato utilizzando il criterio del giusto prezzo del consenso, vale a dire il corrispettivo che l’interessato avrebbe potuto pretendere se l’utilizzo della sua immagine fosse stato oggetto di un contratto.
Tuttavia non sempre è possibile individuare un danno patrimoniale e quantificarlo, e ciò accade, ad esempio, quando la persona di cui viene utilizzata l’immagine è un soggetto totalmente sconosciuto, o quando la divulgazione dell’immagine non avvenga per finalità commerciali.
La Corte di Cassazione, con sentenza n.11768 del 12 aprile 2022, si è occupata di un caso in cui, per l’appunto, non era individuabile un danno patrimoniale a carico del soggetto di cui era stato diffuso il ritratto. Questi i fatti: nel corso di una trasmissione televisiva era stata diffusa, per pochi secondi, la deposizione resa da un testimone nel corso di un procedimento penale, nonostante il dissenso del teste a mostrare la propria immagine al pubblico dei telespettatori. La trasmissione non aveva finalità commerciali e pertanto non era individuabile un danno patrimoniale per il testimone di cui era stata diffusa l’immagine, né era sostenibile che da questa diffusione derivasse un pregiudizio all’onore o alla reputazione del testimone. Tuttavia, nel corso del giudizio di merito il testimone aveva provato che la diffusione in TV della sua immagine gli aveva provocato una patologia di carattere ansioso, quindi un danno, sebbene di natura non patrimoniale. Si trattava quindi di individuare un criterio per monetizzare questo danno e così quantificare il risarcimento dovuto. Il Tribunale a cui si era rivolto il testimone, con sentenza confermata sul punto dalla Corte d’Appello, e poi dalla Cassazione con la pronuncia in commento, ha ritenuto che il criterio potesse essere individuato nei parametri di liquidazione del danno da diffamazione a mezzo stampa indicati nella tabella redatta dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano. Si tratta di un criterio innovativo posto che – come la stessa Cassazione non ha mancato di evidenziare – non è facile trasferire i parametri risarcitori previsti per la diffamazione alla diversa materia della violazione del diritto d’immagine, specie in una vicenda dove, si ripete, non era riscontrabile una diffamazione a carico del soggetto di cui era stata diffusa l’immagine. Il principio potrebbe essere applicato in futuro a situazioni analoghe. Spesso infatti sulle testate giornalistiche o televisive compaiono i volti di persone coinvolte in fatti di cronaca, a corredo dell’articolo o del servizio dedicato a quei fatti. Ma quante volte mostrare il volto della persona rappresenta un elemento necessario o anche solo utile ai fini di una corretta informazione? Poche. Spesso l’immagine altrui serve solo a soddisfare la curiosità del lettore, senza che, in casi simili, il diritto di cronaca possa costituire un’esimente al divieto di diffusione del ritratto senza autorizzazione dell’interessato.
Avv. Pierluigi Cottafavi
categoria:Diritti della personalità